L’obbligo di informazione: dal consenso dell’avente diritto al diritto all’autodeterminazione nel rapporto medico/paziente
Di particolare importanza, nel rapporto che viene a crearsi tra il medico ed il paziente, è il requisito del consenso libero e consapevole del paziente, quale presupposto di liceità dell’intervento e della condotta terapeutica che comunemente si definisce del “consenso informato”.
Un primo rilievo sovviene dalla Carta costituzionale (artt.2-13 e 32) ove vi è l’espresso richiamo alla tutela che lo Stato deve approntare alla salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, garantendo cure gratuite agli indigenti e, stabilisce, che: “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge (art.32)”.In tal modo, traspare anche una partecipazione lato sensu informata del paziente all’atto medico affinché l’approccio terapeutico possa considerarsi lecito e consentito.
Autorevole dottrina manifestò una serrata critica a siffatto nuovo approccio, in quanto “non potrebbe affatto considerarsi che il medico non finalizzasse il suo operato alla cura del paziente”; nel senso di non ritenere necessaria questa partecipazione così incisiva del paziente che potesse giungere anche ad influenzare le scelte del medico.
Si affacciò dunque una nuova visione nella impostazione del suddetto rapporto e l’avvio sovvenne dalla Suprema Corte (Cass. 25.11.1994, n. 10014, in Foro it., 1995, I, 2913), la quale statuì che “sarebbe stato riduttivo fondare la legittimazione dell’attività’ medica sul consenso dell’avente diritto (art. 51 c.p.), che incontrerebbe spesso l’ostacolo di cui all’art. 5 c.c., risultando la stessa di per sé legittima, ai fini della tutela di un bene, costituzionalmente garantito, quale il bene della salute, cui il medico è abilitato dallo Stato. Dall’autolegittimazione dell’attività’ medica, anche al di là dei limiti dell’art. 5 c.c., non deve trarsi, tuttavia, la convinzione che il medico possa, di norma, intervenire senza il consenso o malgrado il dissenso del paziente. La necessità del consenso – immune da vizi e, ove importi atti di disposizione del proprio corpo, non contrario all’ordine pubblico ed al buon costume -, si evince, in generale, dall’art. 13 della Costituzione, il quale afferma l’inviolabilità’ della libertà personale – nel cui ambito si ritiene compresa la libertà di salvaguardare la propria salute e la propria integrità fisica -, escludendone ogni restrizione (anche sotto il profilo del divieto di ispezioni personali), se non per atto motivato dell’autorità’ giudiziaria e nei soli casi e con le modalità previsti dalla legge”.
Ne discende che, al centro della nuova concezione, non c’è più il medico, portatore di un sapere quasi arcano e non contestabile, gestore della salute del paziente, come avveniva in passato, ma vi è il paziente che viene considerato l’unico ed esclusivo “proprietario” della propria salute, e quindi l’unico soggetto cui spetta decidere se accettare o meno l’intervento; così che, affinché il paziente possa esercitare e farlo con piena coscienza, appare indubbio che venga reso edotto su quanto possa concernere la cura e da ciò, conseguentemente, l’obbligo di informazione.
La necessità del consenso del paziente per i trattamenti cui dev’essere sottoposto è stata primariamente prevista dal “Codice di deontologia medica”, approvato dalla Federazione Nazionale degli Ordini dei Medichi chirurghi e odontoiatri in data 16.12.2006, in particolare agli artt. da 33 a 39, e l’art. 16. Ebbene, dalla disamina di tali norme emerge che il medico ha l’obbligo di informare sempre e comunque il paziente, tenendo conto delle sue capacità di comprensione ed adottando forme adeguate quando l’informazione ha ad oggetto una prognosi infausta; tale obbligo viene meno nel solo caso in cui il paziente chieda espressamente di non essere informato (art. 33 Cod. deont. med.); inoltre, l’informazione debba risultare per iscritto (art. 35, comma 2) e che, a fronte ad un dissenso alle cure manifestato del paziente, che sia ovviamente capace d’intendere e di volere, il medico deve astenersi dall’intervenire (art. 35, comma 4).
Per converso, qualora il paziente fosse incapace d’intendere e di volere, il medico deve: intervenire sempre nei casi d’urgenza (art. 36) allorquando, ovviamente, ci si trova in una situazione di emergenza non differibile e debba comunque tenere conto della volontà precedentemente manifestata dal paziente ma a condizione che tale volontà sia stata espressa “in modo certo e documentato” (art. 38, comma 4).
Così come il medico debba astenersi da ogni accanimento terapeutico (art. 35, comma 5, e 39, comma 2) allorquando da esso non ci si possa fondatamente attendere un beneficio per la salute del malato oppure un miglioramento della qualità della vita (art. 16) e, infine, nel caso di malati giunti allo stadio terminale e che non siano in grado di esprimersi compiutamente, il medico è obbligato a “proseguire nella terapia di sostegno vitale finché ritenuta ragionevolmente utile evitando ogni forma di accanimento terapeutico”.
Dunque, è il paziente che deve essere considerato l’unico titolare del potere di disporre della propria salute, così come asserito in una felice frase di Granelli in ”La medicina difensiva”; “bisogna convincersi che la salute del paziente non appartiene al medico, ma solo al paziente stesso, continuando poi l’Autore che si è trattato di una radicale modificazione degli « equilibri interni » al rapporto medico/assistito: ad un modello di tipo paternalistico, che vedeva nel medico il protagonista nelle scelte dei trattamenti sanitari da adottare, si è venuto sostituendo — proprio nel momento in cui i progressi della medicina dischiudevano nuovi ed un tempo neppure ipotizzabili spazi alle scelte terapeutiche da assumere, specie nelle fasi terminali della vita ed in riferimento ai trattamenti di sostegno vitale — un modello di stampo personalistico, che vede invece nel malato l’unico titolare del potere di disporre della propria salute e da ciò, dunque: la salute del paziente non « appartiene » al medico, ma solo al paziente stesso”.
Da questa nuova concezione deriva, tra l’altro, la necessità del consenso per ogni e qualsiasi intervento medico, sia esso di diagnosi o di cura.
Occorre anche rilevare che il consenso, per essere valido, deve essere immune da qualsiasi vizio della volontà, sebbene sul piano dell’errore ciò potrebbe ricondurre a conseguenze non indifferenti sul piano della certezza dei diritti e dei rapporti, atteso che sarebbe assai arduo per il medico provare, in caso di contestazione, che il paziente abbia “effettivamente compreso la portata dell’informazione” non incorrendo in errori neanche di valutazione.
L’informazione fornita deve contenere i seguenti elementi che ne caratterizzano l’esaustività e completezza: la natura dell’intervento o dell’esame; la portata e l’estensione dell’intervento o dell’esame; i rischi che comporta, anche se ridotti, ovverosia, indicare quelle che sono delineate complicanze, dirette ed indirette ed anche tardive; l’eventuale percentuale di tali fenomeni avversi, e, da ultimo, ma non meno importante, le concrete alternative terapeutiche.
In altri termini, il paziente deve essere messo concretamente in condizione di valutare la portata dell’intervento e quanto possa conseguirne a titolo di benefici si cura e concreti rischi avversi.
Tale consenso, dunque, è talmente inderogabile che non assume alcuna rilevanza, al fine di escluderlo, il fatto che l’intervento “absque pactis” sia stato effettuato in modo tecnicamente corretto, per la semplice ragione che, a causa del totale deficit di informazione, il paziente non è posto in condizione di assentire al trattamento, consumandosi nei suoi confronti, comunque, una lesione di quella dignità che connota l’esistenza nei momenti cruciali della sofferenza fisica e/o psichica (Cassazione civile sez. III, 28/07/2011, n.16543).
Sempre per quanto riguarda i limiti dell’oggetto dell’informazione, l’obbligo si estende ai rischi prevedibili e non anche agli esiti che possono definirsi assolutamente imprevedibili, dei quali non vi è traccia in statistica, ciò in quanto si dovrebbe tendere ad evitare che il paziente possa subire scoramenti ragionevoli anche a fronte di un intervento definito routinario. Il giudice di legittimità ha dunque posto limiti rigorosi all’obbligo di informazione: esso comprende tutti i rischi prevedibili, anche se la loro probabilità è minima; mentre non comprende i rischi inverosimili, quelli ovverosia che possono essere ascritti solo al caso fortuito ed assolutamente non prevedibili.
È quindi in colpa (da inadempimento contrattuale) sia il medico che non fornisca al paziente le necessarie informazioni, sia quello che le fornisca in modo insufficiente, sia quello che le fornisca in modo errato (Cass. 28.11.2007, n. 24742).
Pertanto, il diritto del malato, meglio, del paziente, ad essere informato e, conseguentemente, ad esprimere un assenso/dissenso consapevole viene garantito attraverso l’imposizione al medico di un vero e proprio «obbligo» di informazione ad ampio spettro, con conseguente responsabilità in ipotesi di suo omesso, incompleto o non esaustivo adempimento.
In conclusione possiamo affermare che il consenso informato non costituisce soltanto una mera dichiarazione unilaterale disposta dal paziente, ma è il frutto di un continuo processo comunicativo tra medico e paziente, alla luce del rapporto di fiducia che li lega.
Dott.ssa Martina Mondelli
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